Il bullismo e la frontiera della cultura


1.

Non occorre enfatizzare la saggezza popolare, depositata nei proverbi, vale a dire nei detti trasmessi di generazione in generazione che contengono insegnamenti tratti dall’esperienza. Il patrimonio proverbiale è un calderone: in esso intuizioni profonde convivono con luoghi comuni, pregiudizi e autentiche “bestialità”. Il riferimento proverbiale alla goccia che fa traboccare il vaso rappresenta un’intuizione prodigiosa, che ha anticipato di secoli la teoria dei sistemi dinamici non lineari, secondo la quale un sistema del genere mantiene un equilibrio sino ad un punto critico raggiunto il quale esso può andare incontro repentinamente ad una destrutturazione o a una ristrutturazione.

Tale intuizione, che oggi ha assunto la caratura di un modello scientifico, può essere applicata a qualunque sistema dinamico non lineare, dalla coscienza individuale alla cultura. C’è in essa qualcosa di inquietante e di confortante. Inquietante è il fatto che l’equilibrio di un sistema si possa mantenere apparentemente anche quando esso è instabile, vale a dire sotteso da fattori dinamici che richiederebbero un cambiamento. Confortante, viceversa, è che, se si dà un’instabilità celata dalle apparenze, è statisticamente probabile che, prima o poi, un cambiamento critico intervenga.

Occorre ricondursi a questo secondo aspetto per tenere a freno l’idea che la nostra società abbia ormai imboccato la via di una degradazione antropologica irreversibile. La degradazione c’è, ed è tangibile a tutti i livelli, da quelli pubblici a quelli privati. Essa esprime una potenzialità intrinseca all’apparato mentale umano, quella per cui, in conseguenza della cultura, l’uomo può perdere rapporto con alcuni aspetti propri e significativi della sua natura. Un eccesso di alienazione può rappresentare la goccia che fa traboccare il vaso, che causa cioè un “risveglio”.

Mi auguro che questa premessa teorica non venga considerata poco pertinente in rapporto all’oggetto dell’articolo, che verte sull’ultimo fenomeno di “bullismo” registrato dai mass-media inducendo sconcerto: l’aggressione in una classe superiore ai danni di un ragazzo down. Senza un approccio teorico, che porta a conclusioni non banali, un evento del genere rischia, per un verso, di evocare un moto di indignazione, di rabbia e di disgusto (del tutto giustificati, ma sterili) e, per un altro, di attivare una difesa per cui viene isolato dal contesto dei comportamenti di cui rappresenta la punta di un iceberg e archiviato come aberrante o mostruoso.

L’evento in questione ha destato scalpore per una circostanza particolare. Esso è stato filmato da un testimone (un alunno) ed è comparso per alcuni giorni su Google nella sezione dei “Video divertenti”, risultando, tra l’altro, tra i più scaricati, prima di essere rimosso.

Il contenuto del video è stato recensito in questi termini sul sito de La Repubblica da Ferruccio Sansa:

“Scena: una classe di una scuola superiore italiana, gli studenti avranno diciassette, diciotto anni. Il professore, ovviamente, non c'è. Ed ecco che entra lui, il povero protagonista, un ragazzone robusto (lo chiameremo Mario), lo sguardo spaesato dietro occhiali spessi. Una compagna lo introduce nell'aula come si fa con un toro nell'arena: "Fallo entrare", urlano tutti.

Mario viene condotto al centro della classe, messo di spalle per mostrare il sedere, i pantaloni sporchi: "Dio p..., come è sporco, si è cag... addosso". Mario ascolta, sorride perfino, forse per abitudine o perché gli fa piacere ricevere un minimo di attenzione. Ma presto dalle parole si passa ai fatti: arriva l'altro protagonista del video, il cattivo. È un ragazzo magrolino, gel nei capelli, occhi perennemente sgranati. Parte la prima sberla sulla pancia di Mario, poi una spinta, un colpo in faccia e Mario fa per reagire. "Come ti permetti?", gli urlano, sembra impossibile che abbia il diritto di reagire. E giù un calcio per rimetterlo in riga.

Il regista con la telecamera intanto riprende la classe. C'è una ragazza che continua a scrivere, sulla faccia ha un'espressione che sembra più una smorfia che un sorriso. In fondo un altro compagno tiene gli occhi puntati sul libro, come per non vedere la scena, per non vedere nemmeno se stesso in quella classe. Ma gli altri, tutti, partecipano. C'è chi si avvicina alla lavagna e scrive: "Sensibilizziamo culi diversi", poi aggiunge un "SS" tanto per chiarire. C'è una ragazzina, la belloccia della classe, che si sventola un giornale davanti al naso: "Se l'è fatta addosso". Ecco di nuovo il "cattivo" che si lancia in un saluto nazista, poi finge di telefonare: "Salve, siamo di Vividown, un nostro mongolo si è cag... addosso e mo' non sappiamo che fare perché l'odore ci è entrato nelle narici".

Ma è il momento del numero clou: il lancio. Mario è solo davanti alla lavagna, solo contro tutti con la sua maglietta di un arancione eccessivo, con gli occhialoni. E i compagni cominciano: "Vai con il lancio". Parte un libro e colpisce in pieno Mario. E il regista: "Aspetta, rifatelo, non è venuto". E allora si ripete, finché Mario perde gli occhiali e d'un tratto capisce, fa per piangere, cerca di difendersi. Ma lui non può: "Cretino, buuhhh", urla la classe.”

Chi conosce la scuola, sa che un episodio del genere rappresenta la punta di un iceberg, il cui corpo è rappresentato dalle infinite umiliazioni cui vengono sottoposti quotidianamente sia gli handicappati sia coloro che, essendo poco capaci a difendersi, vengono identificati come “soggetti”. Tra questi ultimi risultano, purtroppo, numerosi ragazzi introversi, che rimangono nel loro intimo orribilmente feriti e, talora, sviluppano una rabbia cieca nei confronti della società: dei coetanei selvaggi e degli adulti che chiudono gli occhi.

Il problema del bullismo si pone, insomma, come un problema di ordine generale, anche se le violenze perpetrate non raggiungono sempre oggettivamente il grado di crudeltà dell’episodio in questione. Stigmatizzare il fenomeno e ritenerlo lesivo della dignità umana e del diritto di ogni individuo ad essere rispettato dagli altri quali che sia la sua “diversità” è fin troppo semplice. Intervenire su di esso però postula un’interpretazione affrancata sia dal moralismo sia – ed è più difficile – dallo psicologismo e dal sociologismo.

2.

Su questa via si pone Umberto Galimberti, il cui commento (dal titolo significativo : “Quella forza dei ragazzi senza cuore”), comparso il 12 novembre su La Repubblica, è stato il seguente:

“Ma attraverso quali processi i nostri ragazzi costruiscono la loro identità e l'autostima di sé? Attraverso processi molto arcaici e primitivi, a giudicare dal fatto che tra i video più cliccati su Google c'è quello girato in una scuola superiore italiana da un gruppo di ragazzi che, senza pietà, menano e umiliano un compagno Down. Si sa che i Down sono molto miti e affettuosi, quasi la natura avesse compensato il loro difetto genetico con l'affetto che inducono con la loro gestualità impacciata ma commovente.

Commovente per tutti, ma non per quella moltitudine di ragazzi che traggono soddisfazione identificandosi con quei coetanei che pensano che la natura ci ha dato mani e piedi solo per menare il prossimo. Naturalmente quando il prossimo è ritenuto più debole di noi. L'umanità ha fatto un percorso lunghissimo per passare dalla violenza del gesto alla discussione con la parola.

Oggi stiamo spaventosamente regredendo. E costruendo fin dalla più tenera età ragazzi che cercano la loro identità nella forza. Non nella forza del carattere, e neppure nella forza del pensiero, ma, nella completa afasia del cuore e della mente, nella forza dei muscoli, naturalmente dopo aver opportunamente valutato che la propria forza superi quella dell'altro.

E nel loro cuore latita non dico l'amore, sentimento troppo sofisticato per i loro cuori, ma la commozione che non devi fare nessuno sforzo per trovare. Viene da sé, tocca il tuo cuore per il semplice fatto che di fronte a te hai un tuo simile, e per giunta più svantaggiato di te.

"Senza cuore" non è un'espressione patetica. Significa che in te non si è formato quel sentimento di appartenenza alla comunità umana già presente nel mondo animale, dove tendenzialmente il simile non attacca il simile. Il senso di appartenenza non è una conquista culturale, è un dato naturale che accomuna tutte le specie e, al loro interno, le salvaguarda.

Dobbiamo allora pensare che la nostra cultura sia così degradata da infrangere, sin dalla giovane età, non solo il precetto universale di amare il prossimo, presente in tutte le religioni, ma anche il ribrezzo naturale di accanirsi sul più debole? Sì, dobbiamo pensarlo se è vero che quel video è tra più visti sul Web.

E allora la scuola, prima delle discipline che è incaricata a insegnare, prima dell'educazione civica impartita per avviare all'osservanza della legge, dovrebbe incominciare a indagare se i fondamentali della natura umana sono ancora presenti e attivi nei ragazzi che ogni giorno vanno a scuola e poi a casa accendono il loro computer per identificarsi con quell'aggressività malsana che fraintende la crudeltà con la forza e l'affermazione della propria identità con l'accanimento fisico sul più debole e il più indifeso.

Scuola, scuola, scuola. So che i compiti che oggi vengono affidati agli insegnanti sono molti. Ma incominciamo da questo, perché senza il più elementare dei sentimenti umani, nessun processo culturale può partire.”

E’ ovvio che, avendo costruito una teoria psicopatologica incentrata sull’attribuzione alla natura umana di un bisogno sociale primario, che promuove l’identificazione con il simile, non posso non essere d’accordo con il commento di Galimberti. Dubito, però, che l’interpretazione del bullismo in termini di riemergenza di meccanismi arcaici e primitivi sia pertinente.

L’analisi critica del fenomeno va portata più in profondità, poiché esso, a mio avviso, implica una presa di posizione culturale in rapporto ad una problematica affiorata di recente, che i giovani affrontano con soluzioni che sono rimedi peggiori del male.

E’ inutile che ripeta ciò che ho scritto varie volte sui comportamenti umani aberranti. L’indignazione e il disgusto che essi evocano devono lasciare il campo ad una comprensione critica per giungere a chiarirne l’autentico significato.

Appellarsi alla scuola perché essa si faccia carico, oltre che della trasmissione del sapere, anche dell’educazione emozionale e affettiva dei ragazzi, è un nobile richiamo al significato storico di un’istituzione che è stata fondamentale nel portare avanti l’utopia di una distribuzione ugualitaria delle opportunità e delle risorse sociali (economiche, culturali e anche affettive). Esso però implica che, su questo piano, la famiglia è fuori gioco. Si tratta di un dato di fatto. Nonostante, in rapporto alla programmazione evolutiva della personalità umana, la famiglia rimanga l’agenzia di formazione e trasmissione della cultura più importante in assoluto, è vero che, almeno sul piano apparente, la sua influenza diminuisce progressivamente in rapporto a quella esercitata dai mass-media e dai ragazzi stessi in quanto produttori di codici culturali.

Il problema è che la crisi dell’istituzione familiare che, nelle indagini sugli adolescenti e sui giovani, viene mascherata dall’enfasi con cui essi ne parlano in quanto referente dei loro bisogni di accadimento, di protezione e di consumo, ha investito e investe anche la scuola, l’agenzia pedagogica più importante dopo la famiglia, vissuta dai più come un’istituzione coercitiva, noiosa e senza senso.

Perché si dia, in un contesto pedagogico, educazione emozionale e affettiva, il presupposto necessario è che gli adulti godano agli occhi dei ragazzi di un prestigio che induce l’identificazione, l’imitazione e l’emulazione.

Il tratto più rilevante della psicologia adolescenziale odierna è, invece, il discredito quasi universale che investe gli adulti. Banalmente si riconduce tale discredito alla velocità dei cambiamenti socio-culturali, legati allo sviluppo mediatico, per cui, al di là della prima infanzia, si crea una sorta di scetticismo, destinato a crescere, riferito alla cultura della generazione dei padri, che induce la ricerca di nuovi modelli e di nuovi sistemi di valore.

Il problema è che questo discredito non è infondato. La cultura media nella nostra società, di cui gli adulti (genitori e insegnati) sono i rappresentanti istituzionali, ai quali viene delegato il compito di riprodurla, è una miscela di buonismo, perbenismo, opportunismo, pragmatismo, materialismo (volgare), darwinismo sociale, ecc. Univocamente orientata, per quanto riguarda i ragazzi, a promuovere una normalizzazione e un inserimento sociale incentrato sull’aspirazione ad uno status elevato, tale cultura rappresenta, come ho scritto più volte, l’ibridazione dei due sistemi di valore che sottendono la nostra civiltà – quello cristiano e quello liberistico. L’ibridazione converge sul modello del “buon” cittadino, ma somma, senza integrarli, i disvalori impliciti in quei sistemi: rispettivamente, il misconoscimento di sé a favore dell’altro e il misconoscimento dell’altro a favore dell’Io.

Il modello che discende da tale ibridazione, che non è azzardato definire piccolo-borghese, alimenta gli spiriti animali prodotti dal capitalismo e, allo stesso tempo, tenta di scongiurarne le conseguenze estreme con una spruzzatina di virtù civiche. Per questo suo carattere “ipocrita”, è evidente che esso non esercita alcun fascino sulle giovani generazioni.

L’educazione emozionale e affettiva cui fa riferimento Galimberti non è possibile se non partendo, per quanto concerne gli educatori, da esperienze umane minimamente integrate e sottese da una visione del mondo significativa che vada al di là dell’adattamento al mondo così com’è. Gli adulti, sia quelli che convivono (è la maggioranza) con un carico pesante di frustrazioni, sia quelli  esaltati da un fanatico efficientismo, non esercitano purtroppo alcun fascino sulle giovani generazioni.

3.

Tutto ciò, naturalmente, aiuta a comprendere ma non spiega la drammatica scissione intervenuta nella popolazione giovanile tra una minoranza che sembra preda di un’ossessione normativa e adattiva – tale che alcuni ragazzi sembrano più conservatori dei padri - e una maggioranza che esprime la sua ribellione nei confronti del modello (piccolo-borghese) cui ho fatto cenno in forme diverse, ma accomunate da una certa confusione. Tra queste forme, la più frequente è l’aspirazione ad una differenziazione individuale che si realizza sul terreno di una mistificazione narcisistica. Essa, in breve, sovrappone alle esigenze della crescita, allo sforzo necessario per giungere a costruire un’identità personale e in una qualche misura originale, una maschera elitaria (più spesso ormai di destra che di sinistra), che sancisce uno scarto qualitativo tra Io e altro. Se questa maschera viene adottata da più soggetti, lo scarto naturalmente si pone tra Noi e gli altri.

Per capire la genesi della maschera in questione, occorre ricondursi ad un problema cui ho fatto cenno in altri articoli, ma che, parlando della condizione giovanile, viene sistematicamente rimosso.

Nulla si può capire della crisi che investe la società occidentale se si prescinde dal fatto che essa ormai si trova sulla frontiera di un cambiamento culturale epocale. Tale frontiera aggetta sulla consapevolezza dell’insignificanza oggettiva dell’esistenza, che si riverbera nella soggettività individuale sotto forma di presa di coscienza della propria radicale insignificanza.

A portare l’umanità su questa frontiera hanno concorso molteplici fattori: la progressiva perdita  di presa sull’immaginario collettivo della religione confessionale, l’affermazione della razionalità scientifica e, in particolare, dell’evoluzionismo, l’allentamento dei legami comunitari e parentali in nome della libertà e della differenziazione individuale, il rilancio, sotto l’egida del neoliberismo, del darwinismo sociale, il tramonto dell’utopia comunista e dei valori del socialismo, ecc. Si tratta di fattori diversi ma correlati tra di loro, la cui somma ha portato, per la prima volta nella storia della specie, l’individuo faccia a faccia con la realtà della sua condizione esistenziale: l’essere gettato nel mondo, in nome di una cieca casualità, con un bagaglio ansioso di consapevolezze intrinseche al suo apparato mentale (vulnerabilità, precarietà, contingenza, finitezza, destino mortale). L’effetto di “scopertura”, legato al venir meno dei sistemi sociali e culturali di “protezione” del passato, ha determinato, per ora, un senso di smarrimento e un’angoscia infinita.

Nella lettera che il Ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, ha inviato a La Repubblica in risposta all’accorato appello di Galimberti ad intervenire sul fronte della scuola, è scritto: “in questi sei mesi ho girato scuole e ho letto temi tra i tanti in concorso ai premi letterari per gli studenti e, prima dello stile, mi hanno colpito gli argomenti dei quali tanti ragazzi parlano quando sono soli davanti ad un foglio: morte, solitudine, abbandono, paura.”

Sono i temi che danno la misura dell’impatto emozionale della frontiera cui è giunta la nostra cultura. Leggere in essi l’espressione del nichilismo e affrontare il problema sulla base di un’iniezione di valori – come, in una certa misura, si evince dalle strategie culturali e politiche che il Ministero sta approntando – può essere pericoloso.

Il nichilismo giovanile non è una presa di posizione filosofica, né l’espressione di un relativismo culturale giunto ormai all’estremo della messa in gioco di ogni valore.

Esso rappresenta la reazione – viscerale più che riflessiva - ad un impatto che doveva sopravvenire nella storia dell’uomo: la fuoriuscita da una preistoria della coscienza individuale e collettiva sottesa da  illusioni. Che questa fuoriuscita sia avvenuta con quattro secoli di ritardo rispetto alla rivoluzione copernicana, che ha tolto l’uomo dal centro dell’universo, e alla quale hanno fatto seguito quella darwiniana, che gli ha tolto la convinzione di non appartenere solo alla natura, e quella psicoanalitica, che ha mortificato la sua presunzione di essere padrone almeno in casa sua (in rapporto al mondo interiore), attesta solo la resistenza opposta dall’antropocentrismo.

Il disincanto definitivo è sopravvenuto, negli ultimi cinquant’anni, con l’avvento della tecnologia, del benessere e della globalizzazione, che hanno reso l’uomo compulsivo, ma ponendolo di fronte alla sua insoddisfazione e inquietudine radicale: al suo essere, insomma, gettato nel mondo e incapace di trovare qualunque conforto nell’orizzonte culturale della mentalità piccolo-borghese.

Le conseguenze del disincanto, a livello giovanile, sono devastanti perché la reazione più frequente alla scoperta della propria insignificanza, vulnerabilità e finitezza, è la negazione, vale a dire la fobia dell’umana debolezza che viene repressa dentro di sé e promuove il disprezzo per qualunque sua manifestazione fuori di sé.

Ciò è avvenuto ed avviene all’insegna di due codici culturali che ho analizzato ne La Politica del Super-io, identificandoli nell’orizzonte sociale degli anni ’80: il codice adultomorfo e quello anestetico. Tenere conto dell’incidenza di questi codici, aggancia la soggettività giovanile, nella misura in cui ne è preda, alla storia sociale. Quei codici, infatti, sono i motori dello sviluppo capitalistico nella misura in cui hanno alimentato l’orientamento individuale verso l’autorealizzazione, al di là dell’appartenenza originaria e dei vincoli comunitari o di parentela, e hanno sovrapposto all’empatia la competitività e il desiderio di affermare la propria forza sull’altro e, se necessario, a danno dell’altro.

Via via che la spinta rivoluzionaria della borghesia si è attenuata, quei codici sono divenuti disfunzionali. La società si è imborghesita, ma nel modo peggiore, in virtù di una scissione tra pubblico e privato. Si accetta, sul primo fronte, che la vita è una lotta per sopravvivere, compensata, sul secondo, da un reflusso verso un modo di essere appagato dalla sicurezza, dalla privacy, dal culto (formale) dei valori familiari. La scissione tra pubblico e privato come sfere distinte della vita, dominate da leggi diverse, che impongono di considerare l’altro ora come rivale ora come socius, è il tratto più tipico della mentalità piccolo-borghese.

A livello giovanile, viceversa, i codici in questione sono stati interiorizzati e vengono vissuti in opposizione a quella mentalità, che mortifica il bisogno di opposizione e di originalità che continua a caratterizzare la psicologia adolescenziale. Essi, in breve, vengono utilizzati per rivendicare una vita che sfugga alla routine del quotidiano e, allo stesso tempo, per negare la consapevolezza della condizione esistenziale umana.

I giovani, insomma, non accettano la normalizzazione piccolo-borghese, ma, nel tentativo di dare alla loro esperienza un significato originale ed eccezionale, per sopperire alla consapevolezza dell’insignificanza, cadono nella trappola dell’adultomorfismo e dell’anestesia. Le conseguenze di questa trappola sono micidiali perché essa promuove un’identificazione onnipotente che determina la spietatezza, la negazione della debolezza dentro di sé e la sua persecuzione fuori di sé.

In questa ottica, l’aggressione del debole, dell’inerme, dell’inetto, del diverso, supportata dal gruppo esprime meno un difetto di empatia che la necessità di sancire uno scarto qualitativo tra l’Io-Noi e l’altro, colui che rappresenta la condizione esistenziale allo stato nascente. Attraverso l’aggressione, l’Io-Noi si sottrae all’angosciosa scoperta legata alla frontiera che l’umanità ormai ha raggiunto: scoperta che fa di ogni individuo un insignificante fuscello nel fiume della storia, del tempo, dell’Universo.

C’è un’altra via per affrontare la crisi epocale cui s’è fatto cenno? C’è, ma è attualmente impervia e poco frequentata. Si tratterebbe, infatti, di indurre la consapevolezza e l’accettazione della sfida legata alla frontiera in questione. Tale accettazione implicherebbe giungere a sentire la propria condizione come universale: esperienza – questa – che pone fine alla distinzione tra forte e debole. In questa ottica, infatti, forte è colui che accetta l’umana debolezza e la riconosce in sé e negli altri.

Su questa base, che introduce nell’orizzonte soggettivo la pietas per la propria e l’altrui condizione, ciascuno dovrebbe impegnarsi, sul piano personale e sociale, a fare fronte ad essa attraverso la coltivazione della vita negli aspetti che la rendono significativa: la cultura, gli affetti, la pratica sociale e, da ultimo, anche il confronto, purché esso avvenga sulla base dell’autorealizzazione.

Evidentemente, è più facile sfuggire a questo impegno alimentando l’illusione della forza e comprovandola attraverso il suo esercizio a danno di coloro che, per motivi fisici o psicologici, non possono competere.

Il “bullismo”, dunque, non è solo un comportamento criticabile e per alcuni aspetti perverso: è anche la prova che, giunti sulla frontiera di un disincanto epocale, i giovani sono catturati dall’esigenza di negare ciò che fa parte irreversibilmente del loro bagaglio di consapevolezza: la morte, la solitudine, l’abbandono, la paura.

Occorrerà  insegnare loro, sulla scorta di Marx, ad avere orrore di se stessi per fargli coraggio. E – aggiungerei – ad avere orrore dell’orrore che provano avendo scoperto, in conseguenza di un’evoluzione culturale cui non hanno partecipato, la realtà ultima della condizione umana.

 


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